Elettr. - Viene così definito un componente che
svolge la funzione di molti componenti singoli, cioè di molti
transistori, condensatori, resistori, induttori, ecc. oppure (caso più
comune) di un insieme di tali componenti che, proprio per distinguerli dai
circuiti integrati, vengono detti
discreti. Il termine
c.i.,
sovente abbreviato in
C.I o
CI, deriva dal fatto che un
c.i. è un vero e proprio circuito, utilizzabile in alternativa ad
un circuito costruito collegando insieme un certo numero di componenti discreti.
L'aggettivo
integrato è aggiunto per specificare che tale circuito
è contenuto in un solo contenitore, cioè in un solo pezzo che
l'utilizzatore non può aprire, anche se al suo interno può
contenere un certo numero di componenti singoli. Inoltre una caratteristica
tipica dei
c.i. è la loro piccola dimensione, che va da 1/100 ad
1/1.000.000 di quella di un circuito equivalente realizzato con componenti
discreti. Pertanto in elettronica il termine
integrazione, se riferito
alle soluzioni strutturali dei circuiti, è sinonimo di
miniaturizzazione. Ciò si spiega considerando un esempio pratico.
L'unità elettronica di una calcolatrice a 4 operazioni e percentuale
realizzata con transistori e altri componenti discreti fino al 1965-68 aveva un
volume di 10-20 dm
3. La stessa unità realizzata qualche anno
dopo con
c.i. a bassa integrazione, aveva un volume di circa 1
dm
3. Dopo un anno era possibile integrare tutta l'elettronica della
stessa calcolatrice in un unico circuito integrato, cioè costruire un
solo
c.i. in grado di svolgere la funzione delle migliaia di componenti
utilizzati nel 1965. Per di più tale componente aveva dimensioni
dell'ordine di 5x5x0,2 mm, cioè un volume di soli 5mm
3. Il
sinonimo di
microcircuito, usato talvolta per indicare i
c.i.,
è pertanto più che giustificato. La cosa che più sorprende
guardando alla storia del circuito integrato è la rapidità della
sua evoluzione. Esso deriva dal transistor bipolare, scoperto da Schockley nel
1949, prodotto in pochi pezzi nel 1951 e su scala industriale del
processo
planare, il transistor diventerà disponibile a prezzi accessibili per
le applicazioni di massa. Il circuito integrato nasce nel 1960 e già nel
1963 se ne inizia la produzione su scala industriale. Quattro anni dopo inizia
il crollo dei prezzi e l'aumento della complessità che non ha ancora
avuto termine. Il processo di miniaturizzazione dei componenti elettronici, che
con i transistori aveva raggiunto il livello di circa 1.000 componenti per
dm
3, salì a circa 1.000.000 di componenti per dm
3
agli inizi degli anni '70 e ad un miliardo di componenti per dm
3 nel
1980. Si tratta di un livello che è circa 1/10 di quello del cervello
umano, che fino al 1965 nessuno avrebbe immaginato lontanamente raggiungibile.
La diffusione dei
c.i. ha reso disponibile una elevata potenza di calcolo
a bassissimo costo, col risultato di avviare un processo rivoluzionario non solo
all'interno dell'elettronica ma anche in altri settori. Alcuni casi tipici
saranno descritti più avanti. ║
Classificazione. Numerose
classificazioni, spesso intersecate fra loro, sono attualmente in uso.
Riprendiamo brevemente le più comuni. Dal punto di vista della
complessità i
c.i. sono classificati facendo riferimento al numero
di componenti attivi (tipicamente transistori i diodi) necessari per realizzare
a componenti discreti un circuito equivalente funzionalmente a quello integrato.
È da notare che l'equivalenza è puramente funzionale, in quanto un
c.i. utilizza in generale più componenti attivi di quelli
utilizzati in un circuito a componenti discreti. Ad esempio nei
c.i. i
resistori sono spesso costituiti da dei transistori al fine di risparmiare
spazio. Stanti queste premesse, la classificazione in base alla
complessità divide i
c.i. in:
a)
SSI (small scale
integration) o integrati su bassa scala (fino a 30 componenti per
c.i.);
b)
MSI (medium scale integration) o integrati su
media scala (da 30 a 300);
c)
LSI (large scale integration) o
integrati su larga scala (da 300 a 3.000 componenti);
d)
VLSI (very
large scale integration) o integrati su scala molto larga (oltre 3.000
componenti per
c.i.). Un'altra classificazione fa riferimento alla loro
struttura interna e divide i
c.i. in due grosse famiglie:
monolitici e
ibridi; qualora non si specifici a quale delle due
famiglie appartiene un
c.i., si intende solitamente che è
monolitico. I
c.i. monolitici sono realizzati in un unica piastrina di
silicio, per cui sono "in un solo pezzo", come dice il loro nome. Ovviamente poi
tale elemento, detto
chip (termine inglese di uso universale, traducibile
con scheggia, frammento), viene rinchiuso in un contenitore ermetico per
proteggerlo e renderlo montabile sui circuiti stampati. I
c.i. ibridi (o
semplicemente
circuiti ibridi) sono invece realizzati con un processo di
deposizione di metalli (seguita eventualmente da una incisione chimica) su una
piastrina isolante per realizzare i conduttori e alcuni componenti passivi
(resistori, condensatori, induttori). Su tale piastrina si saldano poi i
chip di componenti attivi (diodi, transistori,
c.i. monolitici,
ecc.), opportunamente interconnessi. Il tutto viene poi chiuso in un contenitore
ermetico non più apribile. I circuiti ibridi sono quindi dei
micromontaggi di componenti diversi, talmente piccoli che una volta chiusi
costituiscono un solo componente. Essi si suddividono in tre categorie:
a)
a chip o multichip; b)
a film sottile o thin film; c)
a film spesso o thick film. Il tipo a
chip include unicamente un
certo numero di
chip di
c.i. monolitici e le relative
interconnessioni. Il tipo a film sottile comprende una piastrina con
interconnessioni e componenti passivi realizzata attraverso la decomposizione e
incisione selettiva di sottili film metallici (oro, lega nichel-cromo, ecc.) in
modo analogo alla produzione di circuiti stampati. Il tipo a film spesso
comprende conduttori e resistori ottenuti serigrafando su una piastrina isolante
delle paste conduttive o resistive che poi vengono cotte in forno ad alta
temperatura. Entrambi i tipi (a film sottile e a film spesso) comprendono degli
elementi attivi montati come detto prima. La tecnica produttiva dei
c.i.
monolitici, che sono i più diffusi, sarà descritta in dettaglio
più avanti. Un'altra classificazione fa riferimento alla natura dei
segnali trattati e distingue i
c.i. in
digitali e
lineari o
analogici. I digitali trattano solo dei segnali digitali, cioè
composti da numeri o codici espressi secondo l'aritmetica binaria o l'algebra di
Boole. Tali numeri sono composti solo da due cifre, l'"1" e lo "0" logico, che
sono rappresentati da due livelli di tensione (ad esempio 5 Volt nominali per
l'"1" e 0 Volt nominali per lo "0"). Ogni ingresso o uscita di tali
c.i.
deve essere uguale a "1" oppure a "0": valori di tensione diversi da quelli che
rappresentano questi numeri non hanno giustificato, fatto salvo un certo campo
di tolleranza attorno ai valori nominali. I circuiti integrati lineari o
analogici accettano invece dei segnali che variano con continuità
all'interno di un certo campo, ad esempio |PY8|10 Volt, e sono in grado di
emettere segnali dello stesso tipo. I componenti che hanno una parte d'ingressi
o uscite che funzionano in regime analogico e un'altra che funziona in regime
digitale (come i convertitori A/D e D/A di cui si dirà poi) sono
classificati fra gli analogici. I circuiti digitali comprendono tutte le
funzioni elementari dell'algebra della logica (o algebra di Boole) come gli
operatori OR, NOR, AND, NAND, NOT, nonché gli elementi di stoccaggio
delle informazioni come i flip-flop e le memorie. Negli apparati elettronici
essi costituiscono le unità di trattamento delle informazioni
(cioè il calcolo e di stoccaggio) mentre i circuiti analogici sono
utilizzati soprattutto come organi di ingresso/uscita o di pilotaggio
(interfaccia con linee telefoniche o con sensori, comando motori, comando
relais, ecc.). Un'altra distinzione, basata sulla struttura degli elementi
attivi, è fra
c.i. bipolari e
c.i. a
MOS. I primi
contengono transistori a giunzioni, cioè funzionanti sulla base delle
proprietà delle giunzioni p-n. I
c.i. a MOS (dove la sigla sta per
Metallo-Ossido-Semiconduttore) contengono transistori ad
effetto di
campo. I componenti lineari sono pressocché tutti bipolari, mentre
quelli digitali possono essere di entrambi i tipi. I digitali a più
elevata integrazione sono però a MOS. ║
Tecnologia
produttiva. Nel seguito si farà riferimento esclusivamente a
produzione dei
c.i. monolitici, che fra l'altro fornisce anche gli
elementi attivi dei
c.i. ibridi. la produzione si può distinguere
in tre grandi fasi: A) progetto e sviluppo; B) produzione dei
chip; C)
montaggio e collaudo. A)
Progetto e sviluppo. Si parte da uno schema
elettrico del componente che si vuole realizzare per stabilire la sua
"integrabilità", cioè la possibilità di realizzarlo come
circuito integrato monolitico. Sovente questo richiede una riprogettazione dello
schema elettrico iniziale per facilitare l'operazione. Lo schema da integrare
viene spesso realizzato a componenti discreti, sotto forma di un montaggio
provvisorio detto
breadboard. Il passo successivo è l'allocazione
fisica dei componenti nello spazio disponibile sul
chip. Ogni componente
ha delle dimensioni standard (ad esempio un transistor può misurare 5x10
micron) per cui il calcolo è semplice; il problema è invece
complesso per la possibilità di realizzare tutte le interconnessioni
necessarie fra i vari componenti. Tranne che per i
c.i. più
semplici, la scelta della posizione da dare ai singoli componenti e alle
interconnessioni è seguita per mezzo di grandi calcolatori; si tratta
comunque di un'operazione assai complessa e laboriosa. Terminato lo stadio di
definizione dell'allocazione, il calcolatore stampa un'immagine molto ingrandita
del componente, che viene usata per controllo. Si passa quindi all'esecuzione
delle
maschere, cioè delle pellicole che serviranno per le
operazioni fotolitografiche del processo produttivo. Per i circuiti più
semplici le maschere sono eseguite con ingrandimento 1:100 o anche 1:1000
mediante un semplice coordinato grafico, partendo da un foglio di materiale
trasparente e inestensibile coperto da una pellicola che viene ritagliata e
pelata via dove non serve. Il disegno ingrandito, detto
artwork, viene
poi ridotto alle dimensioni corrette mediante riduzione fotomeccanica di alta
precisione. Dato che molti componenti vengono realizzati nella stessa
operazione, la maschera utilizzata comprende la ripetizione di molte immagini
una accanto all'altra; ciò si ottiene dalla pellicola originaria,
già ridotta ad es. alla scala 1:10 mediante una macchina di alta
precisione detta
step and repart (letteralmente: fai un passo e ripeti).
Per i circuiti più complessi, l'
artwork in scala 1:10 o 1:100
è prodotto direttamente dal calcolatore che pilota una macchina a penna
ottica la quale impressiona una pellicola fotomeccanica. Il processo di sviluppo
termina con la prova delle maschere e la ricerca delle condizioni operative alle
quali si ottengono delle rese accettabili per il nuovo componente. Per quelli
più complessi, che hanno una dimensione non superiore ai 5x7 mm, una resa
iniziale dell'1% può già essere accettabile in quanto durante la
produzione essa salirà ad es. fino al 10-30% che rappresenta un buon
livello. B)
Produzione dei chip. Materia prima di partenza sono delle
fette di silicio monocristallino, prodotte tagliando un lingotto ottenuto per
raffinazione di zona, dello spessore di 0,2-0,3 mm e del diametro di 3,4 o 5
pollici (rispettivamente 7,6-10,2 o 12.7 centimetri). Tali fette, dette
wafer vengono lappate per rimuovere lo strato superficiale di silicio
danneggiato durante il taglio. Gli stadi che seguono descrivono in modo
semplificato le operazioni necessarie per produrre un transistore n-p-n in un
circuito integrato monolitico bipolare secondo il processo detto
planare-epitassiale. In questo caso il silicio di partenza deve essere di
tipo
p cioè drogato con alluminio o boro. Una fascia del
wafer è dorata e non subisce alterazioni durante tutto il
processo. Le operazioni sono numerate in sequenza. (1)
Ossidazione: i
wafer sono disposti in un forno a caldo in presenza di ossigeno per
ossidare la superficie. (2)
Prima mascheratura. Lo strato di ossido
è ricoperto da un
fotoresist cioè da un polimero
fotosensibile che indurisce dove riceve luce (o viceversa diventa solubile dove
riceve luce). Il
wafer viene poi ricoperto con la prima maschera ed
esposto a luce ultravioletta, che impressiona selettivamente il fotoresist. Dopo
lo sviluppo di questo, lo strato di ossido è coperto da fotoresist solo
in certe zone, mentre in altre è scoperto. Durante la successiva
incisione (per immersione in una soluzione che attacca l'ossido di
silicio ma non il silicio massiccio non ossidato) si rimuove lo strato di ossido
laddove non è coperto da fotoresist rimasto dallo sviluppo. La
mascheratura si conclude con la rimozione di tutto il fotoresist residuo. (3)
Prima diffusione: il
wafer viene posto in un forno ad alta
temperatura in presenza di vapori di fosforo e arsenico. Laddove il
wafer
non è coperto di ossido, questi elementi penetrano nel silicio e creano
una zona drogata N. Dato che il drogaggio è pesante, si crea uno strato
di N fortemente drogato, che viene detto N
+ (o n
+) per
distinguerlo da quelli meno drogati. Questo
strato sepolto migliora le
prestazioni del transistor. (4)
Rimozione ossido: avviene in un liquido a
base di acido fluoridrico, come quello usato per l'incisione durante
l'operazione (2). (5)
Crescita epitassiale: il
wafer viene posto
in una cella ad atmosfera controllata detta
reattore epitassiale, nella
quale si provoca la produzione di silicio atomico, ad esempio per decomposizione
del cloruro di silicio SiCl
1 per reazione con idrogeno. Gli atomi di
silicio che si formano si depositano sulla superficie del
wafer e danno
origine ad uno strato che continua il reticolo cristallino del materiale
sottostante (di qui il nome epitassiale). La crescita avviene con
velocità di circa 1 micron/minuto a 1.100-1.250°C; lo spessore
totale dello strato epitassiale può variare dai 3 a 20 micron secondo il
processo utilizzato. In presenza di piccole quantità di elementi
droganti, lo strato accresciuto sarà drogato P o N: nel nostro caso
dovrà essere drogato N. (6)
Ossidazione: come già visto.
(7)
Seconda mascheratura: operando come nella fase (2) si aprono delle
nuove finestre nello strato di ossido, con una nuova maschera. (8)
Seconda
diffusione: si opera come in (3) ma si diffondono elementi del 3°
gruppo, di solito boro. Di conseguenza la zona non protetta da ossido diventa
drogata
p (o P) perché il nuovo drogaggio
P annulla il
precedente drogaggio
N dello strato epitassiale. Questo drogaggio deve
avvenire in profondità, attraverso tutto lo strato epitassiale, fino a
raggiungere la superficie originaria del
wafer, che è drogato
P. In tal modo si creano delle areole drogate
N in mezzo ad una
massa drogata
P che si isola una dall'altra. Nelle areole sono poi creati
i transistori. In mancanza di questa seconda diffusione, i collettori di questo
sarebbero tutti in corto circuito fra loro. (9)
Rimozione ossido: come
già visto. (10)
Ossidazione: come già visto. (11)
Terza
mascheratura: si opera come in (2) ma con una maschera che scopre delle
piccole finestre dove si avrà la base dei transistori. (12)
Terza
diffusione: si opera un drogaggio
P come in (8) ma molto più
leggero e solo in superficie. Lo strato drogato non deve assolutamente perforare
lo strato epitassiale, perché cortocircuiterebbe le basi coi coli
lettori. Mediante questa diffusione si creano anche le resistenze laddove
necessarie. (13)
Rimozione ossido: come già visto. (14)
Ossidazione: come già visto. (15)
Quarta mascheratura: si
opera come in (2) ma con una maschera che scopre delle piccole finestre
all'interno di quelle scoperte nella mascheratura precedente (stadio 11). (16)
Quarta diffusione: si opera come in (2) ma con drogante
N, di
solito fosforo, e con ancora maggiori cautele perché lo stato drogato non
deve assolutamente perforare il precedente pur essendo il più profondo
possibile. Quest'ultima diffusione crea gli emettitori dei transistori, che
quindi a questo stadio sono completi, anche se non interconnessi fra loro. La
drogatura è pesante (
N+). (17)
Ossidazione: come
già visto; si opera però sul
wafer che in certe zone
è già ossidato perché dopo l'ultima diffusione non si
esegue la rimozione dell'ossido. (18)
Quinta mascheratura: si opera come
già visto ma con una maschera tale per cui si aprono delle piccole
finestre laddove occorre eseguire un collegamento ai dispositivi creati in
precedenza, ad esempio ai tre elettrodi (emettitore, base e collettore) di un
transistor, ai due capi di una resistenza, ecc. (19)
Deposizione
alluminio: la faccia del
wafer sulla quale si sono creati i
dispositivi viene rivestita per evaporazione di un sottile strato di alluminio
(circa 1 micron di spessore) che collega tutti gli elettrodi di tutti i
dispositivi. A questo punto però sono tutti in cortocircuito fra loro.
(20)
Sesta mascheratura (o maschera contatti): si opera come in (2) ma
con una maschera tale da lasciare coperti di fotoresist tutte le parti di
alluminio necessarie per realizzare i collegamenti voluti fra i vari
dispositivi. La successiva incisione asporta l'alluminio non protetto e lascia
il circuito integrato finito. (21)
Protezione: si tratta di una
operazione ausiliaria, che può mancare. Il
wafer viene ricoperto
completamente con un deposito vetroso, che protegge i dispositivi e i
collegamenti dall'ambiente circostante. In questo strato vengono poi aperte
(mediante mascheratura) delle finestre laddove è necessario effettuare i
collegamenti al circuito. (22)
Testing: date le dimensioni del
wafer (da 3 a 5 pollici di diametro) e dei circuiti integrati (da 1x1 a
5x7 mm), su ogni
wafer vi sono dai 200 ai 2.000 circuiti integrati. Una
macchina automatica, dotata di delicatissime sonde che toccano il rivestimento
di alluminio in punti prefissati, è collegata ad una complessa
apparecchiatura (più complessa di un medio calcolatore) che esegue il
collaudo, uno alla volta, di tutti i
c.i. del
wafer. Quelli che
non sono funzionanti vengono contrassegnati con una minuscola goccia di
inchiostro. (23)
Separazione: il
wafer viene inciso con una punta
di diamante in due direzioni fra loro ortogonali, passando nel piccolo
intervallo che esiste fra ogni
c.i. e quello contiguo. Indi viene piegato
delicatamente per provocare la rottura lungo le linee incise: in tal modo ogni
c.i. viene separato dagli altri. Quelli contrassegnati con inchiostro
vengono gettati, mentre quelli funzionanti passano al montaggio. C)
Montaggio
dei chip. Le piccole dimensioni dei
chip e la loro estrema
delicatezza ne consigliano il montaggio in contenitori di dimensioni assai
maggiori di quelle del
chip ma più adatti alle successive
manipolazioni. Inoltre i collegamenti al
chip sono distanziati fra loro
di 30-100 micron, mentre per il montaggio su un circuito stampato occorrono dei
reofori che siano distanziati fra loro almeno 50 o 100 mils (1,27 o 2,54 mm). I
contenitori più comuni appartengono a tre classi:
a) dual-in-line
o
DIP, che hanno i reofori spaziati di 100 mils fra loro e posti su due
file distanti 300 o 600 mils (7,6 o 15,22 mm);
b) tipo TO, cioè
circolare, simile ad un transistor a contenitore metallico, con i reofori
disposti su una circonferenza del diametro di 200 mils (5,1 mm);
c) flat
package, cioè a forma di parallelepipedo, con i reofori spaziati di
50 mils (1,27 mm) e uscenti su due facce parallele. I primi in generale sono
ceramici, i secondi sono metallici, i terzi possono essere di entrambi i tipi. I
DIP e i flat package possono anche essere totalmente plastici, salvo ovviamente
i reofori. Nelle figure sono illustrati alcuni contenitori tipici, con le
rispettive dimensioni e i particolari per il montaggio. I
flat package
sono usati soprattutto per applicazioni aeronautiche e missilistiche, laddove
peso e volume sono fattori determinanti. Il montaggio parte con un package
già pronto, privo di coperchio. Al suo centro esso porta un'area dorata
sulla quale viene montato il
chip mediante un'operazione detta
die-attach. Il
chip viene portato a contatto con il contenitore
preriscaldato e sfregato leggermente: si forma una lega oro-silicio che lo salda
fortemente al contenitore. In alternativa si possono usare delle colle
epossidiche rese elettricamente conduttive. La faccia del
chip che porta
i dispositivi è ovviamente orientata verso l'alto. Su questa si eseguono
i collegamenti ai reofori mediante un sottile filo (diametro comune 25 micron;
diametro massimo circa 100 micron, usato solo per dispositivi di alta potenza)
di alluminio, oro o lega alluminio-silicio. La tecnica più comune, detta
ultrasonic bonding, impiega una testa che attacca il filo al
chip
mediante una leggera pressione esercitata vibrando a frequenza ultrasonica. La
giunzione avviene a freddo, salvo per riscaldamento locale dovuto alle
vibrazioni. In modo analogo avviene il collegamento ai reofori del contenitore.
Un'altra tecnica, detta
stitch bonding, realizza lo stesso collegamento
per pressione, sempre a freddo, senza vibrazioni. In entrambi i casi
l'operazione è largamente automatizzata, ma richiede una costante
supervisione di un operatore attraverso un buon microscopio. Una volta montato
il
chip ed eseguiti i collegamenti (o
bonds), si procede alla
chiusura del contenitore che può essere eseguita montando un coperchio di
ceramica con un mastice vetroso oppure saldando un coperchio metallico su una
superficie metallica o metallizzata. Il dispositivo chiuso viene collaudato e
marcato poi con le indicazioni necessarie (ad esempio nome del produttore, sigla
del componente, settimana di produzione, ecc.).
Varianti per circuiti a
MOS. La tecnologia produttiva dei circuiti a MOS è indicata a quanto
visto prima per la parte di sviluppo del dispositivo e per la parte di montaggio
e collaudo dello stesso. La produzione dei
chip è invece alquanto
più semplice (almeno come numero di operazioni) perché si hanno
solo due diffusioni (
n e
n+) oppure
p e
p+ secondo i casi). Gli elettrodi di
gate, cioè
di controllo dei transistori, sono di alluminio, e sono ottenuti insieme ai
collegamenti. Dato il particolare funzionamento dei transistori ad effetto di
campo, lo strato di ossido finale deve avere, almeno in certe zone, uno spessore
calibrato con la massima precisione. Un'altra area critica è la
registrazione delle aree di alluminio della
gate rispetto alle
diffusioni, che deve avvenire con tolleranze inferiori al micron (tutte le
operazioni di centraggio delle maschere avvengono comunque sotto microscopio
anche nel processo descritto in precedenza). La struttura dei transistori dei
c.i. a MOS è autoisolante, per cui non è necessario
eseguire la crescita epitassiale e creare un anello che separi i vari
dispositivi. Ciò permette di ottenere maggiori impaccamenti in numero di
dispositivi per mm² e quindi componenti più complessi, dato che le
dimensioni massime dei
chip sono fissate, anche se non rigidamente, dal
brusco calo delle rese produttive quando i
chip superano i 5x5 mm circa.
La maggior complessità di questi circuiti crea grosse criticità
nelle maschere per carenza di precisione e cattiva definizione dei contorni. Per
i dispositivi più complessi il fotoresist è impressionato non
dalla luce attraverso una maschera ma da un sottile fascio di elettroni pilotato
in modo analogo al cinescopio di un televisore. La diffusione è pure un
processo poco preciso, che limita l'impaccamento. In alcuni casi si evita sia
questa sia la relativa mascheratura: il drogaggio del
wafer avviene
bombardandolo con un sottile fascio di ioni pilotati elettricamente come detto
sopra per il fascio di elettroni. Ovviamente questo richiede apparecchiature di
complessità enorme e di estrema precisione, che rappresentano quanto di
più avanzato la tecnologia abbia creato. La maggior semplicità del
processo e la maggior complessità dei dispositivi ottenibili ha
determinato la grande diffusione del
c.i. a MOS degli ultimi anni,
nonostante che questi dispositivi siano molto più lenti di quelli
bipolari. Un grosso problema nasce dal fatto che raddoppiando il numero dei
dispositivi in un
chip, il numero di interconnessioni necessarie per
collegarli elettricamente diventa non il doppio ma 3 o 4 volte tanto. D'altra
parte la maggior parte dei collegamenti deve stare su un unico piano, senza
intersezioni, come per le piste di un circuito stampato (si veda la figura che
riproduce una maschera dei collegamenti). L'intersezione di due connessioni
è possibile perché una di queste viene collegata ad una diffusione
P o N che passa sotto l'altra; in tal modo un tratto di conduttore è
sostituito da un minuscolo resistore. Ciò comunque va usato con cautela
in quanto tale collegamento è sempre una fonte di difetti; inoltre una
parte dei
chip viene sprecata per realizzare la diffusione e questa
può generare dei disturbi o (per MOS) addirittura dei transistori
parassiti.
Descrizione dei più comuni dispositivi. I
c.i.
sono tanto numerosi che una loro descrizione completa occuperebbe una intera
biblioteca. Nello stesso tempo è impossibile dare una idea delle
possibilità che offrono questi componenti senza citare in qualche modo le
loro prestazioni. La descrizione che segue sarà quindi svolta per grandi
famiglie, evitando anche i dettagli tecnici che si possono trovare sui
data
sheet, cioè sulle descrizioni dei dispositivi pubblicate dai
fabbricanti. A)
Circuiti integrati analogici. Come si è detto sono
quelli che trattano segnali analogici, cioè variabili con
continuità entro un certo campo. Gli
amplificatori sono la
famiglia più numerosa; come dice il loro nome sono dei
c.i.
destinati ad amplificare un segnale. Si suddividono in numerose sottoclassi, fra
le quali: a)
-audio, destinati ad amplificare segnali audio e a pilotare
altoparlanti di radio, registratori, giradischi, ecc.; di solito includono anche
circuiti di protezione contro sovraccarichi (o corto circuiti), compensazione
del guadagno, ecc.; b)
-chroma, usati per l'amplificazione del segnale
video nei televisori a colori; c)
-RF cioè in radiofrequenza, che
amplificano un segnale radio con la relativa onda portante, usati ad esempio
come primo stadio in un ricevitore radio; d)
-differenziali, che danno in
uscita un segnale in tensione che è un multiplo della differenza di
tensione esistente fra due ingressi; e)
-di corrente, che danno in uscita
una corrente multipla di quella entrante da un ingresso; f)
-squaring,
cioè squadratori, che danno in uscita una tensione zero quando il segnale
applicato all'ingresso è inferiore ad un certo valore, mentre danno un
segnale a tensione fissa quando il segnale supera tale valore; g)
-logaritmici, che amplificano una tensione in ingresso secondo una scala
logaritmica (ad esempio quando l'ingresso raddoppia di valore l'uscita si
moltiplica per 10). Gli
oscillatori sono un'altra famiglia importante. Si
tratta di circuiti che danno in uscita un segnale alternato con una certa
frequenza rigidamente costante. Tale segnale può essere sinusoidale
oppure un'onda avente una forma utile (ad esempio squadrata o a dente di sega).
Servono per generare segnali molto più stabili di quelli prodotti da un
oscillatore a quarzo, che può essere sensibile alle variazioni di
temperatura e di pressione. I
generatori di funzioni sono particolari
oscillatori che generano onde di forma complessa. I
circuiti per orologi
sono dei
c.i. di vario tipo in funzione del tipo di orologio (analogico,
cioè con le lancette, o digitale, cioè con lettura numerica). Essi
sono per lo più digitali, ma possono contenere una parte analogica, ad
esempio per il pilotaggio dei display. La loro parte centrale è un
oscillatore ad alta frequenza, che genera il tempo base, il quale viene poi
diviso dallo stesso circuito secondo un fattore X per dare le ore, 60 X per dare
i minuti primi, 3.600 X per dare i secondi e così via. In certi orologi
il tempo base è dato da un quarzo, per il
c.i. è
completamente digitale. Per limitare al massimo la corrente assorbita
dall'orologio e far durare anche qualche anno la micropila di cui è
dotato, si utilizzano di solito dei
c.i. a MOS complementari, detti anche
C-MOS, che sono caratterizzati appunto da bassissimo consumo. I
convertitori
A/D (analogico-digitale) e
D/A servono per convertire un segnale
analogico in digitale o viceversa. Ad esempio un convertitore A/D accetta in
ingresso un segnale che può variare in continuo fra 0 e + 10 Volt. In
funzione del valore di tensione in ingresso, esso dà in uscita un codice
numerico binario (cioè un insieme di "1" e "0" logici) che esprime tale
valore. Dato che ad esempio con 10
bit si può esprimere fino al
numero decimale 2
10 - 1 = 1023, la precisione della conversione
può essere migliore dello 0,1%. Valori migliori si ottengono codificando
su più
bit. I convertitori D/A hanno un funzionamento opposto: se
si applica agli ingressi un codice binario, si ottiene in uscita un segnale
proporzionale al valore numerico di tale codice. Entrambi i tipi sono molto
utilizzati come interfacce fra una unità digitale (ad esempio di calcolo,
un display, ecc.) e una unità di misura ad uno strumento. Un'altra
famiglia sono i
convertitori V/F e
F/V (tensione-frequenza e
viceversa). I primi dispositivi convertono un ingresso analogico in una uscita
alternata ad onda quadra la cui frequenza istante per istante è
proporzionale al valore dell'ingresso. I
convertitori F/V eseguono la
funzione inversa: danno una tensione in uscita proporzionale alla frequenza del
segnale in ingresso. Sono usati ad esempio nel controllo di velocità di
motori elettrici. I
convertitori DC-DC (da corrente continua a corrente
continua) danno in uscita una tensione rigorosamente costante indipendentemente
dalla tensione applicata all'ingresso. Ad esempio un componente di questo tipo
può dare un'uscita di 10,00 Volt purché l'ingresso stia fra i 12 e
i 40 Volt. Si tratta quindi di eccezionali stabilizzatori di tensione (migliori
dei circuiti realizzati a componenti discreti con diodi Zener), usati laddove
serve una tensione rigorosamente costante (strumenti di misura, apparecchiature
elettromedicali, ecc.). Anche qualche autoradio di qualità utilizza uno
di questi circuiti per avere una alimentazione di 12 Volt costante anche con
tensione ai morsetti della batteria variabile fra 9 e 18 Volt. Gli
operatori
aritmetici eseguono alcune operazioni aritmetiche su delle tensioni
applicate agli ingressi (
Vx e
Vy). Se la
tensione in uscita
Vu è data dalla formula
Vu =
Vx Vy / K, ove
K
è una costante, si ha un moltiplicatore. Un divisore dà in uscita
Vu / KVx / Vy. Se si pone
Vx =
Vy collegando fra loro i due ingressi,
un moltiplicatore esegue il quadrato del segnale in ingresso. La radice quadrata
di
K Vx può invece essere ottenuta come uscita di un
circuito che estrae la radice quadrata. Tutte le operazioni suddette si possono
anche eseguire con uno stesso componente, collegando opportunamente i suoi
reofori. Questi dispositivi sono usati per calcolatori analogici e per rendere
lineari certe funzioni che non lo sono. Vi sono poi innumerevoli altri circuiti
integrati lineari che operano come trasduttori, pilotaggi di linee telefoniche,
filtri attivi, selettori elettronici (multiplexers), ecc. Fra questi ricordiamo
solo uno dei più recenti sviluppi, il
voice synthesizer
(sintetizzatore di voce). Si tratta di un dispositivo dal costo relativamente
modesto (qualche decina di dollari) che è in grado di sintetizzare la
vibrazioni della voce umana e, se collegato ad un altoparlante, di pronunciare
un numero anche elevato di parole. La possibilità di far "parlare" un
calcolatore è nota da tempo, ma le apparecchiature utilizzate in passato
erano molto complesse. Avendo sviluppato questo componente, la Texas Instrument
ha costruito e lanciato un giocattolo elettronico per insegnare la pronuncia
dell'inglese: digitando sulla tastiera una parola inglese (scelta in un certo
vocabolario per ora abbastanza ristretto), il giocattolo la pronuncia
correttamente. B)
Circuiti integrati digitali. Se la classe dei
c.i. analogici è grande e complessa, quella dei
c.i.
digitali lo è ancora di più. Inoltre l'aggiornamento delle
conoscenze è difficile in quanto quasi ogni giorno viene annunciato un
nuovo prodotto. Anche qui ci limiteremo quindi a descrivere i componenti per
grandi famiglie. Le
porte (o
gates) sono i
c.i. più
semplici. Essi contengono gli elementi base, cioè i circuiti che
realizzano gli operatori elementari dell'algebra della logica o di Boole. Ad
esempio un circuito NAND dà in uscita uno "0" logico solo quando a tutti
gli ingressi è applicato un "1" logico; quando anche uno solo degli
ingressi è a "0" l'uscita va ad "1". Un circuito NOR invece fornisce in
uscita uno "0" logico solo quando ad uno o più dei suoi ingressi è
applicato un "1" logico. Gli altri operatori (OR, AND, NOT) si comportano in
modo analogo, ognuno secondo la sua tavola di verità. Le porte possono
avere un numero di ingressi che (salvo per il NOT) variano da 2 a 4 e talvolta
anche più. Anche se un
c.i. che contiene porte ne racchiude un
certo numero (da 2 a 4), è sempre estremamente semplice. Molte porte sono
anche contenute nei
c.i. più complessi; anzi le porte e i circuiti
di memoria (alcuni dei quali a loro volta composti di porte) sono gli elementi
base dei
c.i. digitali. Le porte possono essere distinte, secondo il tipo
di circuito elettrico utilizzato per realizzarle, in DTL, TTL, ECL, HLL, ecc.
Ognuna di queste famiglie possiede caratteristiche proprie di velocità,
consumo, immunità al rumore, ecc. Questa distinzione in famiglie permane
per tutti i
c.i. non a MOS che contengono porte. I
flip-flop o
FF sono costituiti da due o più porte opportunamente collegate fra
loro. Si tratta di elementi di memoria: ogni FF è in grado di
immagazzinare un'informazione elementare cioè un
bit (cifra "0" o
"1" dei numeri binari). Il FF è un circuito tale che con un comando si
può fare assumere alla sua uscita il valore "0" o "1". Esso poi mantiene
tale valore in uscita finché gli arriva un comando di cancellazione. Il
multivibratore è un
flip flop astabile, la cui uscita
commuta continuamente fra "0" e "1" e viceversa, generando un'onda quadra che
viene assunta come temporizzazione per tutta la macchina o una sua parte. Per
questo motivo è anche detto
clock (orologio). I
contatori
sono circuiti che danno in uscita un numero binario (ogni uscita dà un
bit) che aumenta di I ad ogni impulso ricevuto (
up counters) o
diminuisce di uno ad ogni impulso (
down counters). Con un opportuno
arrangiamento il contatore fornisce in uscita un impulso ad onda quadra ogni
N impulsi in ingresso (contatore per
N, ove
N è un
intero). Si può quindi usare un contatore per dividere per
N una
certa frequenza, ad esempio quella generata dal
clock. I
buffers
sono degli insiemi di
flip flop che servono per immagazzinare
temporaneamente un gruppo di
bit. I
registri a spostamento (o
shift register) sono degli organi di memoria costituiti da un certo
numero di celle (ad esempio dei flip-flop) organizzati sequenzialmente. Ad ogni
impulso di un certo comando il
bit applicato all'ingresso viene
memorizzato nella prima cella, mentre quello che era in questo passa nella
successiva e così via. Se esso era pieno, ad ogni impulso entra un
bit nuovo e viene perso il più vecchio. La capacità del
registro di solito non supera i 256
bit. Il
multiplexer è
utilizzato come selettore elettronico, per serializzare informazioni disponibili
in parallelo, ecc. Questo dispositivo, nella forma ad 8 ingressi, dispone di 8
ingressi di segnale che diremo
I0,
I1, ...
I7 e di tre ingressi di comando
S0,
S1 e
S2, oltre all'uscita Z. Se
S0 =
S1 =
S2 + "0" logico
(livello di tensione bassa), si ha che
Z =
I0; se i tre
ingressi di comando valgono 1-0-0 si ha che
Z =
I1 se
valgono 0-1-0 si ha che
Z =
I2, e così via. Si
può quindi rendere
Z uguale ad uno qualsiasi degli ingressi
I0,
I1, ecc. secondo la combinazione di "0"
e "1" applicata agli ingressi
S. Gli addizionatori sono circuiti che
eseguono la somma fra due numeri binari. I semisommatori (
half adder) non
eseguono il riporto che è eseguito all'esterno con porte supplementari. I
sommatori completi (
full adder) eseguono anche il riporto e possono
sommare sia due
bit, sia numeri di 4, 8, ecc.
bit ciascuno in
parallelo. I
codificatori (encoder) sono circuiti che trasformano
un'informazione o un segnale in un codice binario atto a essere trattato da
un'unità digitale. Ad esempio il codificatore di tastiera genera un
codice (ad esempio 8
bit) secondo il tasto che viene premuto. I
decodificatori (
decoder) hanno funzioni pressoché opposte. I
transcodificatori (
transcoder) traducono un certo codice in un altro (ad
esempio quello usato da una macchina in quello usato da un'altra). Le
Memorie sono gli organi di stoccaggio delle informazioni che,
ricordiamolo, sono sempre espresse in numeri binari. Si dividono in due grandi
famiglie: le
memorie a lettura - scrittura o
RAM (abbreviazione
dell'inglese
Random access memory, letteralmente Memoria ad accesso
causale) o le
memorie a sola lettura o
ROM (Read only memory). Le
memorie RAM possono essere sia scritte che lette dalla macchina durante il suo
funzionamento, e vengono utilizzate per immagazzinare informazioni per il tempo
che serve, ad esempio per l'esecuzione di un programma di calcolo o per parte di
esso. Equivalgono in termini manuali ad un foglio di carta sul quale si scrivono
dati, istruzioni, risultati, ecc, e che viene cancellato quando ciò che
si è scritto non serve più. La maggior parte di quelle in
commercio perde i dati contenuti se si spegne la macchina. Le memorie a sola
lettura o ROM possono solo essere lette; la macchina durante il suo
funzionamento non ne può alterare il contenuto, che permane anche allo
spegnimento. Equivalgono in termini manuali a pagine di istruzioni su come
eseguire certe operazioni, numeri fissi (come pi-greco, la base dei logaritmi,
ecc.) che chi esegue i calcoli può e deve consultare, senza però
poterle cambiare. Le ROM sono normalmente scritte dal produttore; certi tipi
(detti
PROM) sono scritti dall'utilizzatore, cioè da chi
costruisce la macchina elettronica. Fra le
PROM vi sono anche le
EPROM, che una volta scritte si possono, con opportune apparecchiature,
cancellare e riscrivere con contenuto diverso. La capacità delle memorie
è il numero massimo di
bit che esse possono contenere. Per le
più semplici questo è 32, 64, 128, 256 o 512, mentre per quelle
complesse può essere 1K (1.024
bit), 4K (4.096
bit), 8K,
16K, 64K, 128K, ecc. fino a 512K. I
microprocessori rappresentano
l'ultima famiglia di CI; pur essendo estremamente complessi hanno dei costi
relativamente contenuti, per cui stanno rivoluzionando il mondo dell'elettronica
più di quanto sia successo nel passaggio da componenti discreti a
c.i. Un microprocessore contiene al suo interno una serie di circuiti che
lo rendono equivalente ad un piccolo calcolatore; accetta quindi istruzioni di
somma, sottrazione, confronto, ecc. fra due numeri, nonché istruzioni su
dove memorizzare o estrarre sia numeri sia istruzioni. Esso, pur avendo le
dimensioni di pochi millimetri quadri (salvo il contenitore), si può
paragonare come potenza di calcolo al primo calcolatore italiano
(università di Pisa, 1955) che occupava varie stanze. Naturalmente
è anche molto più veloce e semplice da programmare. I
microprocessori sono dei dispositivi generici, il cui compito viene specificato
da altri componenti esterni al loro contenitore. Per questo si possono applicare
a qualsiasi apparecchiatura nella quale serva eseguire calcoli o prendere
decisioni "ragionate". In tal modo è possibile rendere "intelligente" una
serie infinita di attrezzature e macchine già esistenti, oltre ad
inventare attrezzature elettroniche completamente nuove. Alcuni esempi si
vedranno più avanti.
Applicazioni dei c.i.. È impossibile
enumerare tutte le applicazioni correnti dei
c.i.. Ogni apparecchiatura
elettronica di una certa complessità ne contiene almeno uno. Calcolatori,
elettronica di bordo di aerei e missili, apparecchi miniaturizzati furono i
primi esempi. Senza l'invenzione dei
c.i. non sarebbe stato possibile
costruire satelliti utili all'uomo, atterrare sulla Luna e lanciare sonde verso
gli altri pianeti e la profondità dello spazio. Ma questi sono solo i
casi più evidenti, come gli orologi elettronici che pur costando
relativamente poco hanno una precisione altissima, e come i calcolatori
tascabili che hanno reso il regolo calcolatore obsoleto come le carrozze a
cavalli. Le nuove macchine fotografiche automatiche contengono un
c.i.
che regola il tempo o il diaframma secondo la luminosità del soggetto. I
televisori sono in grado di trovare la sintonia migliore per la ricezione,
possono essere programmati per passare automaticamente da un canale all'altro ad
una certa ora o per non lasciare vedere certi programmi ai bambini, ecc. Ma
anche altri prodotti sono stati inventati in veste elettronica. Già da
vari anni la Singer commercializza macchine da cucire a comando elettronico, in
grado di eseguire una enorme serie di punti e ricami. Nel 1978 la Olivetti ha
messo in commercio una macchina da scrivere elettronica. Nel 1979 alcuni
produttori hanno lanciato un traduttore automatico: si digita su una tastiera
una semplice frase in una lingua ed essa compare su un display tradotta in
un'altra lingua. Un potente calcolatore tascabile è già
disponibile; volendo si può memorizzare in esso l'intera Enciclopedia
Britannica e richiamare sul visore le informazioni che interessano. Delle
macchine "intelligenti", i cosiddetti "robot", sono in grado di assemblare dei
prodotti (inclusa parte di loro stessi), verniciare perfettamente tutta la
carrozzeria di un'automobile, ecc. Su certe automobili è montato un
calcolatore di bordo che informa il guidatore sulla velocità media
mantenuta, velocità da mantenere per giungere ad una certa ora, consumo
per chilometro, ecc. Ma la maggior parte delle applicazioni è ancora da
scoprire o da realizzare. Inoltre la scarsità di energia sta accelerando
il processo di trasformazione, come appare dai seguenti esempi. Le nuove
lavatrici risparmiano acqua ed energia dosando le condizioni di lavaggio in
funzione del carico e del grado di sporcizia degli indumenti. I semafori che si
stanno sviluppando "vedono" quanti veicoli sono in attesa di passare e sta.no
arrivando sulle strade dell'incrocio ed evitano attese inutili. Gli ascensori in
sviluppo "vedono""le persone in attesa e quelle nella cabina, memorizzando il
piano al quale vogliono andare ed eseguono le fermate in modo da servire gli
utenti minimizzando i percorsi. Interruttori che accendono e spengono le luci
quando si entra o esce da una stanza sono già stati provati. Le nuove
automobili avranno un minicalcolatore (in pratica un microprocessore) che dosa
la benzina in funzione delle condizioni di marcia, pressione e temperatura
dell'aria, oltre a disporre di un calcolatore di bordo che fornisce indicazioni
su velocità media, consumo medio di carburante, tempo di viaggio residuo,
ecc. I modelli più elaborati montano anche un sintetizzatore di voce per
dare al guidatore dei messaggi verbali come ad esempio "freno tirato". Fra il
1980 e il 1983 è iniziato, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, il
boom degli
home computer, piccoli calcolatori per uso domestico dotati di
una potenza di calcolo che dieci anni prima era tipica di un calcolatore di
media dimensione. In parallelo i televisori stanno diventando sempre più
digitalizzati (cioè dotati di
c.i. digitali) e possono fornire
servizi ausiliari come l'illustrazione di orari ferroviari, ricette di cucina,
ecc. anche in sovrapposizione all'immagine video. La disponibilità di
microprocessori e di grandi memorie a bassissimo costo rendono possibili una
serie quasi indefinita di applicazioni (dalla fabbrica automatica ai libri
elettronici e ai videogiochi), molte delle quali sono oggi più
avveniristiche di quelle anticipate dai romanzi di fantascienza. Come nel XVIII
secolo la disponibilità di energia, idraulica prima e a vapore poi,
affrancò l'uomo dalla necessità di fornire continuamente l'energia
necessaria al suo lavoro oltre che di controllarla, così la rivoluzione
elettronica, affrancando l'uomo dalla necessità di calcolare e
immagazzinare le informazioni e lasciandolo libero di dedicarsi solo alla logica
dei problemi, avrà, in tempi molto brevi, delle ripercussioni enormi
anche sul piano sociale. Basta dire che si ritiene che entro il 2000 almeno un
30% della popolazione potrà svolgere il suo normale lavoro stando a casa
propria. Ma è comunque difficile prevedere ove porterà la
rivoluzione elettronica, iniziata con la scoperta del
c.i., quel
minuscolo pezzetto di silicio la cui complessità per unità di
volume è prossima a quella del nostro cervello.